Viaggio nel futuro dell’inclusione. Dario Ianes ai giovani: “Rompete le scatole”
Siamo tra la fine degli anni 2000 e l’inizio del 3000, il termine inclusione ha smesso di avere ragione di esistere e ogni essere umano si sente valorizzato per il proprio potenziale. Le Università formano studenti, in ogni ambito disciplinare, anche dal punto di vista psicologico. Gli Istituti scolastici sono uniformi nel tenere in considerazione tutti gli aspetti dell’ormai avanzata Legge italiana sull’inclusione scolastica, perciò anche nelle secondarie di secondo grado, dove un tempo – ancora nel 2023 per esempio – si faceva molta fatica a vedere l’unicità di ogni studente e di ogni studentessa, ora si pensa a come dar spazio e voce a eventuali difficoltà, invece di etichettarle sbrigativamente con “mancanza di volontà” o “poco interesse”.
Ecco qui la visione illuminante (e illuminata) di un mondo capace di dar conto delle differenze, impreziosendole, perché il “Nemico dell’inclusione è la standardizzazione”. Ne abbiamo parlato con il professor Ianes, professore ordinario (da poco felicemente in pensione) di Pedagogia dell’inclusione alla Facoltà di Scienze della Formazione della Libera Università di Bolzano e co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento.
Oggi come stanno davvero le cose
“Tanti parlano di società inclusiva, di scuola inclusiva, di mondo del lavoro inclusivo, linguaggio inclusivo. Il concetto è molto attuale”, ci dice il professor Ianes, ma dovrebbe (con)tenere le differenze nel senso di tenerle insieme, appunto, per valorizzarle e armonizzarle in una società complessa. Non basta essere attenti alle differenze degli esseri umani, occorre la loro convivenza rispettosa perché includere non significa inserire qualcuno dentro qualcosa: nessuno deve includere qualcun altro.
C’è un dato evidente, chiarisce Ianes: il moltiplicarsi delle differenze. Pensiamo per esempio a quanti bambini o bambine oggi hanno due padri o due madri: inconcepibile anche solo vent’anni fa. Ecco, questo modo di essere differente contempla che la nostra società diventi sempre più eterogenea e ricca di diversità a cui dar voce perché può solo essere un bene.
E quanto sarebbe bello abolire il pensiero di qualcuno che include qualcun altro? Dove, tra l’altro. In quale sorta di faticosa bolla immaginaria? Non si tratta forse di dogane mentali, controlli all’entrata di luoghi astratti tristemente pensati come chiusi?
La vera inclusione implica un percorso condiviso e l’unico confine dovrebbe essere quello sano del rispetto reciproco, perché no, non siamo tutti uguali, ma abbiamo tutti gli stessi diritti.
E l’inclusione scolastica. A che punto siamo?
Dal primo grande passo epocale del ’77, quando si è posto termine al sistema delle classi separate, a oggi, potremmo senz’altro affermare di essere sulla strada giusta. Siamo giunti infatti al riconoscimento sia dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA): ragazzi e ragazze non sono svogliati, pigri o demotivati, hanno difficoltà di apprendimento in alcuni ambiti disciplinari e lì bisogna agire con strategie adeguate per compensare quelle difficoltà; sia dei Bisogni Educativi Speciali (BES) per coloro che si trovano in una condizione di fragilità anche momentanea, come può esserlo un bambino o una bambina che vive la morte di un genitore.
Ma, se pur dotata di una legislazione avanzata rispetto agli altri Paesi europei, l’Italia deve compiere il passo finale per considerare la totalità degli studenti e delle studentesse. La grande sfida è puntare a una scuola universale, capace di organizzare un’offerta formativa talmente ampia e diversificata da sapere accogliere chi ha una grave disabilità intellettiva e chi ha una grande potenziale. Da far sentire libero chiunque sieda tra i banchi scolastici.
Le Istituzioni scolastiche, sembrano proseguire a diverse velocità. Siamo a buon punto nella scuola dell’infanzia dove la flessibilità e la formazione del corpo docenti creano situazioni quasi utopiche nella secondaria di secondo grado dove invece prevale ancora molta rigidità. E ancora, il professor Ianes ci parla di una distinzione dentro la distinzione, tra i vari tipi di scuola per esempio, o sulla formazione tra la primaria e la secondaria di primo grado, nonostante dalla quinta elementare alla prima media, in mezzo, siano trascorsi solo due mesi.
La macchina del valore che produce etichette
Il termine differenze dovrebbe essere utilizzato nell’unico senso possibile: mettere al centro l’unicità della persona. “A me piace la differenza tra il concetto di differenza e quello di diversità, perdonate il gioco di parole” ci dice il professor Ianes e spiega la sua idea della macchina del valore.
Se le caratteristiche umane del tutto neutrali, come i capelli neri e lisci, sono oggetto di etichettatura valoriale, gli ingranaggi di questa macchina innescano processi che conducono a “Una realtà fatta di pregiudizi, stereotipi, aspettative che generano un valore negativo o positivo su quel tipo di differenza”
E questo vale per tutto, e per il professor Ianes gli esempi sono infiniti, nel tempo e nello spazio: l’orientamento sessuale, i tatuaggi, l’essere ebraico nella Germania del Terzo Reich: quel che è una peculiarità di una persona, diventa positiva o negativa in base al contesto.
Occorre perciò acquisire consapevolezza di questi meccanismi e assumersi la responsabilità di far Inceppare la macchina del valore. Una comunità educante dovrebbe agire in questa direzione. Chi dice, per esempio che un bambino maschio non piange? Ognuno di noi, nel proprio ruolo, ha diritto e dovere di intervenire. L’adulto vicino di casa può consolarlo chiarendo che non c’è alcun problema a piangere, anche se si è un bambino maschio; l’insegnante può (e deve) scegliere libri di testo che non siano colmi di stereotipi sulle professioni e così via.
E le nuove generazioni?
Voglio fare un appello alle studentesse e agli studenti: “Rompete le scatole voi!” perché su questa strada possiamo aprire il luminoso varco del diritto di riconoscimento.
Soft Skill e altre amenità
Quando gli chiediamo delle cosiddette abilità morbide, meglio conosciute come soft skill, il professor Ianes, citando il libro di Edgar Morin (noto filosofo e sociologo francese, ndr), ci parla di teste ben fatte e teste ben piene. La prima è quella che sa gestire le situazioni incerte, invece di accomodarsi nella rigida suddivisone tra il bianco o il nero. O ancora, è la testa che sa trasformare un potenziale conflitto di potere in un confronto costruttivo, per esempio imparando a gestire una forte divergenza di opinioni in modo produttivo e democratico per non farlo diventare uno scontro gerarchico. E suona un po’ come una stonatura allora che il Parlamento italiano abbia definito le soft skill come competenze non cognitive.
Il 12 gennaio 2022 infatti, la Camera dei Deputati ha approvato la proposta di legge (n. 2372), relativa al Disegno di legge 2493 per “l’introduzione sperimentale delle competenze non cognitive nel metodo didattico” a oggi in corso di esame al Senato. Ma viene da chiedersi, senza voler entrare qui nel merito della proposta di legge, cosa significa competenze non cognitive? Per sviluppare le cosiddette competenze trasversali per ogni professione – e per ogni contesto di vita -, quali il problem solving, la creatività, il pensiero critico, la curiosità, il senso di responsabilità, l’autocontrollo, la perseveranza, l’empatia, la cooperazione, la resistenza allo stress, il controllo emotivo, che si fa, si poggia la testa sul comodino?
Sono davvero molti gli spunti di riflessione che ci ha consegnato il professor Ianes, per scoprirli tutti guarda l’intervista completa:
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