Accesso al credito femminile, ostacoli e possibilità. Discriminata o supportata?
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Ci sono due parole che, più di altre, sembrano rappresentare un ostacolo per le donne che desiderano avviare o sviluppare un’attività imprenditoriale in Italia: donna e imprenditoriale.
Partiamo dai numeri per raccontare l’entità del problema. Secondo i dati di Unioncamere 2023, le imprese femminili rappresentano appena il 22,4% del totale delle aziende italiane attive. Un trend negativo ampiamente confermato al Sud Italia e che pone l’accento su un contesto ancora più difficile per le donne rispetto ad altre aree del Paese. Ma perché questi numeri sono così bassi? I motivi sono molteplici e non possiamo ignorarli:
- Fare impresa vuol dire non avere orari. Questo per una donna si traduce in dover costantemente giustificare un’assenza nei rapporti personali che difficilmente viene compresa da chi sta a fianco
- Fare impresa vuol dire non avere certezza dello stipendio. E quando sei una donna e sei in una fase di start up e lavori tutti i giorni tutto il giorno, senza un contraltare economico, e magari nel frattempo devi pagare un servizio di babysitting e qualcuno che si prende cura della casa….ecco che arriva il senso di colpa e il giudizio in chi sta a fianco.
- Fare impresa vuol dire rischiare. La paura di fallire è un ostacolo enorme, specie in contesti come il Sud, dove il fallimento viene visto non come un’esperienza da cui imparare, ma come un marchio indelebile. Non abbiamo dati che ci indicano una differenza su questo aspetto tra uomini e donne ma a guardarci bene intorno forse una differenza c’è.
Se questi sono solo 3 dei molteplici motivi per cui non abbiamo molte donne imprenditrici, tra quelle che con coraggio competenza e determinazione ci provano, altre sono le criticità che si presentano, a partire dall’accesso al credito.
L’educazione finanziaria: un’assenza che pesa, soprattutto per le donne
Parliamo chiaro: in un mondo in cui il denaro non solo muove le economie, ma definisce opportunità, l’educazione finanziaria non dovrebbe essere un lusso, ma un diritto. Eppure, in Italia, questa competenza cruciale rimane spesso fuori dalle nostre aule e dalle agende politiche. A pagarne il prezzo? Le donne e i giovani, ancora troppo spesso esclusi dalle conoscenze necessarie per gestire e pianificare il proprio futuro economico.
Marcella Corsi, economista e docente alla Sapienza di Roma – dove insegna anche Economia di Genere – lo spiega con semplicità disarmante: “Le statistiche evidenziano una carenza di educazione e istruzione finanziaria per la popolazione italiana, in particolare per quanto riguarda le donne e i giovani”. E ha ragione. Questa mancanza non è solo una questione personale, ma un ostacolo sistemico che frena l’empowerment e l’inclusione economica.
Pensateci un attimo: come possiamo parlare di parità di genere se metà della popolazione non ha accesso alle competenze per gestire il denaro? Senza educazione finanziaria, anche l’accesso al credito femminile diventa una corsa a ostacoli: più difficile da ottenere, più caro da sostenere e spesso legato a una minore autonomia decisionale.
L’educazione finanziaria non è una materia accessoria o tecnica. È uno strumento di emancipazione, una forma di autodifesa e, soprattutto, una leva per cambiare il gioco. E ancora una volta concordiamo con Marcella Corsi, “Un’educazione finanziaria diffusa è un passo necessario per una società più equa e consapevole”.
Quindi, cosa stiamo aspettando? È ora di includere l’educazione finanziaria nei programmi scolastici, di renderla accessibile a tutte e tutti, e di riconoscerla come una competenza essenziale per vivere in un mondo che, per quanto ci piaccia o meno, gira intorno al denaro. Perché non si tratta solo di bilanci e risparmi, ma di possibilità e libertà.
Questo divario, spesso, le priva degli strumenti necessari per la predisposizione di un business plan, la gestione finanziaria di un’azienda e, l’accesso ai finanziamenti. Un’educazione finanziaria solida potrebbe fare la differenza, non solo per accedere al credito, ma per gestirlo in modo efficace e sostenibile. In questa direzione, iniziative come i corsi di formazione gratuiti finanziati da programmi europei potrebbero rappresentare un punto di partenza, ma a oggi restano frammentarie o, più probabilmente, ancora viste come lontane possibilità, invece che un’opportunità.
La sfida per ottenere finanziamenti non riguarda solo le risorse economiche, ma si estende al contesto culturale, alle normative e ai meccanismi sistemici, riflettendo secoli di marginalizzazione finanziaria. In questo quadro complesso, il divario nell’accesso al credito non è solo un problema di numeri: è un riflesso profondo di barriere invisibili e radicate. Ma perché questa disparità persiste? E come si posiziona l’Italia rispetto agli altri paesi sul piano internazionale?
Affrontare questa disparità significa riconoscerne le molteplici dimensioni. Solo analizzando questi aspetti si possono individuare soluzioni concrete e inclusive, capaci di superare un divario che non è solo finanziario, ma anche sociale e culturale.
Secondo il report della FABI (Federazione Autonoma Bancari Italiani), in Italia le donne ottengono appena il 20% del totale dei prestiti bancari, contro il 34,5% degli uomini, con il restante 45% legato a finanziamenti cointestati. Questo gap vale circa 70 miliardi di euro, un’enormità che sottolinea come il divario di genere nel credito sia un vero ostacolo allo sviluppo economico e sociale.
Le cause? Stipendi mediamente più bassi, un tasso di occupazione inferiore e minori patrimonio a garanzia dei finanziamenti, specialmente nel Sud Italia, dove la forbice aumenta.
Pari dignità, un miraggio (anche) quando si parla di credito
C’è una promessa scolpita nell’articolo 3 della Costituzione italiana: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”. Ma provate a chiedere a una donna imprenditrice in Italia cosa significhi accedere al credito. Vi racconterà che quella promessa, per lei, spesso rimane solo un sogno.
Lo Stato si impegna, almeno sulla carta, a eliminare le barriere che impediscono il pieno sviluppo della persona. Ma cosa accade quando le barriere sono invisibili, intrecciate nelle maglie di pregiudizi culturali, meccanismi bancari maschil… ops, volevamo dire rigidissimi!, e statistiche che continuano a penalizzare il femminile? Accade che la donna, con il suo progetto imprenditoriale, si trovi di fronte a porte che si chiudono.
La contraddizione di un sistema normativo moderno, ma inefficace
È vero, l’Italia ha fatto dei passi avanti: la Legge 125/1991 con l’introduzione delle pari opportunità tra uomini e donne nel lavoro; il Codice delle pari opportunità (D.Lgs. 198/2006) che riordina e aggiorna le norme in materia di uguaglianza di genere; e persino le quote rosa nei consigli di amministrazione con la Legge Legge Golfo-Mosca del 2011, hanno cercato di correggere il tiro. Anche se a Goodwill fanno storcere un po’ il naso – visto che il loro bisogno implica già discriminazione – ma teniamo in considerazione che forse sono un passaggio obbligatorio. Forse.
Dunque il problema non è solo economico e di applicazione delle norme. È soprattutto culturale.
E il risultato è che, nel mondo del credito, le donne rimangono ai margini. Quel 20% dei finanziamenti bancari alle famiglie che in Italia vanno alle donne, è un dato che non ha bisogno di interpretazioni: le donne imprenditrici partono svantaggiate, frenate da una storica diffidenza verso il loro ruolo economico.
Siamo convinte che sul podio di quel che dovrebbe essere risolto, il fenomeno culturale sia a pieno titolo al primo posto. Pensiamoci un attimo: esiste LA LEGGE che garantisce parità di genere in ogni ambito. Eppure i dati, in ogni ambito, dimostrano che così non è. E se al di sopra della Costituzione italiana nessun’altra legislazione può fare di più e meglio, l’unica chiave risiede nel cambiamento sociale, culturale, mentale, che quella LEGGE, poi, la rende fattiva.
Queste valutazioni dovrebbero farci riflettere: quando il nostro sistema si avvicina a quello di paesi con regimi repressivi e strutture economiche ben lontane dalle nostre, forse è il momento di smetterla con le giustificazioni. Il problema è sistemico, e lo scandalo sta proprio qui: l’accesso al credito, che dovrebbe essere un diritto quasi banale, diventa la cartina di tornasole di diritti negati. E noi, purtroppo, non siamo messi tanto meglio.
Viviamo in un mondo in cui le donne vengono attivamente escluse dalla sfera economica, diventando simbolo di un’assenza di libertà molto più ampia.
In Italia, cosa manca davvero?
Manca il coraggio di trasformare la legge in azione, lo ribadiamo. Manca una rete di supporto reale che consenta alle donne di essere imprenditrici, senza dover dimostrare due volte tanto per ottenere metà delle opportunità. Serve una rivoluzione culturale nelle banche, dove il rischio associato al femminile smetta di essere un pregiudizio e diventi una statistica equa.
L’articolo 3 della Costituzione italiana non dovrebbe essere una poesia da incorniciare, ma un pilastro concreto su cui costruire una società di diritto per tutte e tutti. Una società in cui la parola donna non sia sinonimo di ostacolo se associata a imprenditoria, una società in cui l’accesso al credito sia una scala e non una porta sbarrata.
In Italia, e più precisamente in Calabria, lo scenario è talmente sconfortante che viene da chiedersi se siamo davvero parte di un contesto europeo. Peggio di noi? Solo paesi con i quali non ha nemmeno senso fare paragoni. Non hanno la nostra economia, non hanno la nostra democrazia, eppure ci ritroviamo a condividere una triste incapacità di garantire alle donne il diritto di accedere al credito e, più in generale, alla sfera economica.
Una leadership femminile: ostacoli, alleanze e desideri
Le donne rappresentano meno del 28% del tessuto manageriale in Europa e a livello globale sono appena il 5% le amministratrici delegate. Il soffitto di cristallo si estende anche al settore bancario, dove due terzi delle istituzioni europee sono guidate da uomini. Eppure, le aziende con leadership paritaria registrano migliori performance, evidenziando il valore della diversità (fonte: Donne-e-Finanza).
Tutti questi fenomeni, sono spesso alimentati da una forma di bias istituzionale e dalla percezione che le imprenditrici siano meno capaci o più rischiose rispetto agli uomini (niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire!). Le statistiche menzionate – quelle che evidenziano, da parte delle donne richieste di finanziamenti più modesti e accesso ai prestiti di grandi dimensioni più difficile, ma anche minore presenza di donne negli ambiti dirigenziali, per intenderci – sono la causa di un altro aspetto critico: la mancanza di adeguata rappresentanza femminile negli organi decisionali bancari, la quale, ça va sans dire, non consente di dare una risposta adeguata alle esigenze delle imprenditrici. Cambiare la narrativa richiederebbe interventi su più livelli, tra i quali:
- Educazione finanziaria: Rafforzare le competenze economiche delle donne, come suggerito anche (ma non solo) dal report Invest in Her di Mastercard, presentato a marzo 2024 per la giornata internazionale delle donne, può rappresentare un punto di partenza;
- Garanzie pubbliche mirate: uno schema di garanzie specifiche per le donne potrebbe ridurre il rischio percepito dalle banche;
- Leggi più incisive: incentivi fiscali per le imprese che promuovono la parità di genere, congedo parentale per i padri, pene più severe contro le molestie anche solo verbali e psicologiche, ecc..
Il ruolo delle politiche pubbliche
Le politiche pubbliche possono giocare un ruolo cruciale nel superare queste barriere e nel promuovere l’accesso delle donne al credito. In Italia, la Legge 215/1992, che prevede interventi a favore dell’imprenditoria femminile, è uno dei principali strumenti di supporto, ma l’efficacia di tali politiche è ancora limitata. Le leggi, pur esistendo, necessitano di essere aggiornata per rispondere alle nuove sfide dell’economia digitale e delle start-up. Inoltre, le iniziative pubbliche non sempre riescono a superare le resistenze culturali che ostacolano il progresso. In Italia, sarebbe necessario incentivare politiche di sensibilizzazione all’interno delle istituzioni bancarie, insieme a misure di supporto finanziario come i fondi di garanzia, che possano ridurre il rischio per le banche nell’erogazione di prestiti a donne imprenditrici.
E dove va meglio?
Un esempio positivo di politica pubblica che potrebbe fungere da modello è il programma di microfinanza nato in Bangladesh negli anni ‘70, lanciato dalla Grameen Bank di Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace nel 2006 per il suo impegno nel combattere la povertà. La filosofia del microcredito, infatti, si basa sull’idea che anche somme modeste possano innescare trasformazioni significative, offrendo opportunità di avviare piccole attività imprenditoriali, specialmente in contesti vulnerabili.
Un altro esempio viene da Svezia e Finlandia, dove politiche attive di inclusione e la promozione di un ecosistema favorevole alle start-up femminili sono riuscite ad abbattere molte delle barriere culturali e legali presenti in altri paesi.
In paesi come la Nuova Zelanda o la Norvegia, l’accesso delle donne al credito è significativamente migliore, grazie a politiche di parità salariale e di supporto all’imprenditoria femminile. Questi paesi hanno attuato politiche di supporto all’inclusione, promuovendo l’accesso delle donne a finanziamenti agevolati e la partecipazione alle reti imprenditoriali.
O ancora, il Kenya, tramite iniziative come il Women Enterprise Fund, dimostrano che è possibile cambiare rotta. Ma tali successi restano eccezioni, mentre altrove le norme discriminatorie rimangono intatte.
Focus sulla situazione in Calabria
Tra le peggiori regioni italiane (Campania, Puglia, Veneto, Sicilia, Basilicata, Lombardia, Piemonte e Calabria), in termini di accesso al credito femminile – secondo il già citato report della FABI – cinque sono al Sud, dove mediamente alle donne è stato riconosciuto solo il 18% dei mutui e prestiti mentre agli uomini il 35% in media sul totale. In queste regioni, il divario medio, in termini economici, si attesta a 3 miliardi di euro, partendo da un minimo di mezzo miliardo in meno concesso alla clientela bancaria femminile in Basilicata, passando a 4,3 miliardi di Sicilia e Puglia, fino ad arrivare a quasi 5 miliardi in Campania, mentre in Calabria si attesta a 1,1 miliardi di euro.
Tra le peggiori in Italia, ma non la peggiore al Sud, quindi. (Secondo dati che forse non tengono conto di quante donne facciano solo prestanome per aziende guidate da uomini, possiamo dirlo? Velocemente e tutto d’un fiato! Ma questo merita approfondimento a parte).
C’è poi da ricordare che nella nostra Regione, in questo scenario senza lode e senza infamia, emergono i fondi messi a disposizione per le donne e le loro attività imprenditoriali. Ad esempio, il Fondo di Garanzia per le PMI (FIF) che offre non solo il denaro (a tasso agevolato oppure a fondo perduto), ma anche il supporto in fase di progettazione perché spesso, come raccontano le beneficiarie, c’è l’idea chiara in testa, ma non si sa come realizzarla.
Questo dimostra che interventi mirati, come quelli offerti dal FIF, possono alimentare l’innovazione ma anche radicare opportunità durature in contesti svantaggiati.
Tuttavia, il successo di questi programmi dipende dalla capacità delle istituzioni di promuovere una cultura del credito più equa e accessibile, rompendo il ciclo di esclusione finanziaria che ancora trattiene molte donne calabresi dal realizzare i propri sogni.
(Non) soffocare il potenziale di metà della popolazione
Umanizzare la finanza significa ripensarla come strumento di partecipazione ampia, capace di soddisfare aspirazioni e progetti senza discriminazioni. La strada è lunga, ma alleanze, desideri e progetti concreti possono ridurre le distanze, rendendo il futuro un po’ più equo.
Con l’adozione di politiche più partecipate e con il sostegno a iniziative di microcredito e garanzie, si potrebbe assistere a una vera rivoluzione nell’imprenditoria femminile, non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Solo in questo modo si potrà garantire che le donne abbiano le stesse opportunità di accesso al credito e possano contribuire pienamente allo sviluppo economico globale. E così, un giorno, donna e imprenditoriale saranno solo due parole, senza ombre di ostacoli.
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