Smart Working: cos’è veramente?
22 Marzo 2020. “Consentiremo solo la modalità di lavoro in smart working”.
Queste le parole che il premier Conte ha pronunciato dinanzi all’intera nazione all’indomani di uno degli eventi più inaspettati e sconvolgenti dell’ultimo secolo di storia. Il popolo italiano è confuso, spaventato, in balia della più totale insicurezza. Mancano punti di riferimento, si diffida di tutto e di tutti. In questo scenario così surreale, entra in crisi anche uno dei capisaldi della vita dell’uomo: il lavoro. Le parole di Conte rimbombano in maniera enigmatica nella mente degli italiani all’ascolto, increduli di quanto sta accadendo. Le donne, rispetto agli uomini, forse un pò di più, angosciate dall’idea che lo smart working potesse essere un ritorno agli albori della civiltà: l’uomo, dotato di clava, va a caccia, mentre la donna, con fare sommesso, si dedica a figli, casa e cucina. La situazione sembra davvero uno scenario apocalittico e agghiacciante.
Ma la domanda che tutti si pongono è la medesima:
“Sì, va bene, ma questo smart working… che cos’è?”
Sono passati mesi da quella storica conferenza e non si può dire che la risposta sia riuscita a risolvere tutti i dubbi celati nell’espressione “Smart Working”. Anzi, per la verità non sembrerebbe affatto esserci una risposta univoca al quesito! Ne abbiamo sentite di tutti i colori, partendo dal “lavoro da casa”, passando per il “lavoro al 40%”, fino ad arrivare al “lavoro da remoto”. Ma d’altra parte ci è stato anche detto più volte che il concetto di “smart working”, entrato così a gamba tesa nelle nostre vite, non sia esattamente nulla di ciò che ci è stato “proposto”.
Per la seconda puntata del podcast “Nessuno diventa eroe da solo”, abbiamo rivolto dubbi, domande e perplessità sul tema dello smart working a Francesco Biacca, fondatore di Evermind, una “smart working company” al 100%. Insomma, la persona giusta al momento giusto! Per Biacca, lo smart working non ha né può avere una definizione scientifica; è un approccio lavorativo totalmente unico nel suo genere. Nell’immaginario collettivo, il lavoro è svegliarsi la mattina e andare in ufficio, timbrare il cartellino e restare seduto alla propria scrivania per le 8 ore successive, concedendosi al più una pausa caffè.
Un ambiente statico, quasi asettico. A volte sembra proprio di trovarsi in una sala operatoria: tutti ai propri posti con gli strumenti in mano. Ma se provassimo a cambiare le regole del gioco? Lo smart working è proprio questo: è come essere alla finale di coppa, ultimo tempo supplementare e cambiare completamente gli schemi, spiazzando totalmente gli avversari. Nulla a che vedere, dunque, con il “telelavoro” o il “lavoro agile”, ma un vero e proprio cambio di paradigma.
Questo perché le persone normalmente non prendono nemmeno in considerazione la possibilità che il mondo del lavoro possa cambiare; non per pessimismo, né per scarsa fantasia, ma semplicemente per puro pragmatismo: “se non vado nel mio ufficio e se non lavoro 8 ore al giorno non riuscirò a guadagnare, non sarò produttivo, le aziende non mi assumeranno”. E’ la realtà di tutti i giorni a dirci questo. Bene, la forza dello smart working sta proprio nella capacità di conciliare il bisogno umano di non farsi consumare dal tempo di lavoro con quello di “dover necessariamente portare a casa la pagnotta”. E questo, a ben vedere, è un qualcosa di straordinario. Lo è per svariate ragioni, ma ne esiste una che le comprende tutte e si chiama felicità.
“Tutti gli esseri umani vogliono essere felici; peraltro, per poter raggiungere una tale condizione, bisogna cominciare col capire che cosa si intende per felicità”.
Jean-Jacques Rousseau
Chi è che non aspira a raggiungere la felicità? È probabilmente lo stato d’animo maggiormente desiderato, quello a cui ogni essere umano ambisce naturalmente. Il punto è che il mercato del lavoro ci ha quasi abituato a vedere l’associazione lavoro/felicità come un qualcosa di raro, quasi utopico, una sorta di trade-off: o sei felice o lavori. Questo anche perché nell’immaginario classico perfino il luogo di lavoro è statico, poco flessibile, poco familiare. Esistono però realtà, come i coworking,che hanno avuto un’intuizione che ha del geniale: nei coworking, già prima dell’avvento dello smart working, si è riusciti a conciliare l’esigenza di trovarsi fisicamente in un ufficio con la flessibilità e la familiarità di cui effettivamente un lavoratore necessita. Si sono, cioè, creati luoghi che hanno il gusto per il bello, che sono capaci di evocare ambienti accoglienti e stimolanti. Quasi meglio di casa!
Il lavoratore ha un evidente bisogno di familiarità per essere felice, che dipende anzitutto dal luogo dove lavora. Ma dipende anche da per che cosa/per chi lavora. Vero è che esistono persone (pochi eletti in realtà!) che riescono a costruire il lavoro ideale, ma comunque dovranno convivere con la rigidità degli schemi tradizionali e con la (a volte) sterilità dei freddi uffici pieni di scartoffie. Ma deve davvero essere così? Il modo di concepire l’azienda proposto dal nostro role model scardina questi stereotipi arcaici.
L’azienda non è immaginata come un palazzo triste, grigio e inanimato, concentrato solo su sé stesso, ma come un essere vivente, un organismo, formato da altri esseri viventi, con i loro bisogni, le loro forze e le loro capacità da considerare e valorizzare. E ciò non va assolutamente a scapito della produttività generale dell’azienda: oggettivamente, il lavoratore felice è un lavoratore che produce meglio e produce di più. E questo lo sa bene Francesco Biacca: lo smart worker vero riesce ad auto-definire come, dove e quando lavorare. Se poi nello scegliere dove lavorare, si ha la fortuna (e perché no?) il coraggio di scendere più a sud della penisola, per farsi ispirare dalla brezza marina e dai passaggi dei piccoli borghi, allora sì che possiamo definirlo smart worker.
O per meglio dire South worker! La felicità, quindi, è vero, fa bene all’io, ma fa bene anche alla totalità, alla collettività aziendale.
Ma allora, lo smart working/south working è tutto un “e vissero felici e contenti”? In realtà, non è proprio così. Esiste primariamente un potenziale problema di “fiducia e controllo” dello smart/south worker che lavora da casa e potrebbe abbandonarsi alla vita quotidiana fatta di serie tv e patatine. In realtà, il problema è un “falso problema”, figlio di un assurdo retaggio del passato: le persone che vogliono entrare a far parte di una smart working company, cioè, sono valutate nella propria totalità, come anima e corpo, come hard e soft skills. Il controllo, conseguentemente, finirà per essere “in prevalenza all’ingresso”. Scordiamoci l’immagine di un capo che passa le giornate alle calcagna dei dipendenti: il suo ruolo sarà quello del supervisore che tutela la buona riuscita del progetto, gestito con un filo diretto tra professionista e cliente.
La fase di recruiting rappresenta evidentemente il momento più delicato per la vita di un’azienda smart working. Ma cosa si valuta in concreto? Le persone, per essere davvero felici, produttive e nelle piene condizioni di svolgere il proprio lavoro in maniera ottimale hanno bisogno di “immedesimarsi” e “condividere” i valori generali dell’azienda. Perché è dalla condivisione che nasce l’appartenenza. Altrimenti il rischio è di catapultarsi in uno stato di caos eccentrico, una sorta di entropia culturale, in cui ogni atomo rimane una unità a sé stante. Ed è questa la criticità che nasconde lo smart working: essere un’azienda completamente smart significa perseguire l’obiettivo di creare una molecola unica, compatta e partecipata, individuando gli strumenti giusti per far fronte anche alle decisioni pluristrutturate, proprio come ha fatto Francesco Biacca.
Insomma, l’azienda non è per tutti e non tutti sono per l’azienda: serve un qualcosa in più, perché non basta e non può bastare approvare i valori aziendali in modo assolutamente impersonale e distaccato; occorre, invece, sentirsi realmente e personalmente una parte di quel tutto.
E’ curioso, quindi, che tutto ciò, tutte queste luci e queste ombre, siano state riassunte banalmente in un “lavoro dal mio divano”. Parlare con Francesco Biacca ci ha permesso di scoprire come lo smart working rappresenti un’alternativa valida e non una semplice variante di un pacchetto preconfezionato. È un’alternativa però, ricca di opportunità, sicuramente, ma al contempo di criticità (la fiducia, il controllo, l’acuirsi del gender gap); non è l’unica e sola strada percorribile.
Lo smart working, allora, non è o bianco o nero. Probabilmente è grigio. E probabilmente, prima di decidere quale tonalità di grigio sia, prima di decidere se è abbinabile con il nostro io, forse, dovremmo solo armarci di coraggio e… provare!
Scritto dal team di Ang inRadio Rende – Nessuno diventa eroe da solo
Lascia un commento